Sauro BORELLI- L’inno alla pace di Renoir (il restauro de “La grande illusione”)



La moviola del tempo

 

 

L’INNO ALLA PACE DI RENOIR

Locandina La grande illusione

 

Integro e restaurato “La grande illusione” , capolavoro della cinematografia d’ogni tempo

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Nel 1937, l’anno in cui vide la luce La grande illusione di Jean Renoir, la Francia viveva ancora, con fervore e passione, i problematici giorni del Fronte Popolare. Ciò nonostante, lo stesso Renoir, pur già autorevole esponente del cinema più prestigioso, ebbe non poche né trascurabili difficoltà per trovare la quadratura del cerchio per produrre e realizzare, appunto, La grande illusione. Renoir medesimo ricordò spesso in anni più tardi: “La storia dei miei tentativi per trovare chi finanziasse La grande illusione potrebbe diventare il soggetto di un film… Senza l’intervento di Jean Gabin nessuno… Si sarebbe arrischiato in questa avventura…”.

Ora, 77 anni dopo la sua prima sortita (alla Mostra di Venezia ove, obtorto collo, i dirigenti fascisti furono costretti a inventare un nuovo premio, per non assegnargli la Coppa Mussolini) La grande illusione, superati finalmente di slancio tutti i veti e le interdizioni, i tagli, le censure subiti durante la sua travagliata carriera, ritorna, integro e smagliante (grazie al lavoro congiunto della cineteca di Tolosa e quella di Bologna), sui nostri schermi giusto nel centenario della Grande Guerra 1914-1918.

E’ un evento felice poiché la sortita di questo capolavoro ripristina, da un lato, una valutazione più pertinente, più rigorosa su una figura carismatica quale quella di Jean Renoir e, dall’altro, sullo stratificato valore morale e civile di un’esemplare “canzone di gesta” tutta pacifista.

Desunto da originari ricordi personali dello stesso Renoir, a più riprese ferito durante la grande guerra, e delle concomitanti avventure dell’amico generale Pinsard, il soggetto e la conseguente sceneggiatura (approntati insieme a Charles Spaak) si consolidarono quindi nel lungometraggio a soggetto ispessito, oltretutto, da un cast di interpreti di collaudata maestria: a cominciare dal volitivo Jean Gabin, al sofisticato Pierre Fresnay e Marcel Dalio rispettivamente interpreti dei personaggi maggiori, il tenente Maréchal, il capitano De Boëldieu, il tenente Rosenthal. Completati, poi, dalle figure del comandante tedesco Rauffenstein (il grande Eric von Stroheim) e i restanti ufficiali francesi (Jean Dasté, Julien Carette e Jacques Becker), tutti nei panni (da una parte e dall’altra) di aviatori combattenti, prigionieri e carceriere.

In effetti, La grande illusione evoca proprio l’odissea parallela di questi “uomini in guerra” che, per una congiura del caso o la bizzarria di rischiose avventure, si ritrovano l’un contro l’altro forzati a subire le traversie drammatiche della guerra. Sia nel cimentarsi con l’ansia di recuperare dignità e libertà con la fuga. Sia nel sopravvivere ai vari lager in cui sono soggetti alla dispotica – ma discriminatoria – presenza del comandante Rauffenstein che, pur consapevole, del proprio ruolo mortificante di carceriere, persegue con militaresca ottusità (seppure non priva d’un certo codice d’onore) quel pugno di irriducibili “nemici”.

In dettaglio, mentre i giorni degli ufficiali francesi trascorrono, inerti e logoranti, tra la desolazione del campo di concentramento e le vaghe notizie della guerra in corso, gli indomiti Maréchal e i suoi compagni (non escluso l’aristocratico capitano De Boëldieu) fanno e brigano per organizzare la fuga, mentre il ferrigno comandante Rauffenstein indugia nei suoi maniacali rituali di ostinato gentiluomo, malgrado tutto e tutti.

Poi, il fatto a lungo e laboriosamente preparato prende corpo: Maréchal e Rosenthal, ben coadiuvati dal capitano De Boëldieu (che si sacrifica per favorire la fuga dei compagni) riescono a scappare dalla pur munita fortezza della loro prigionia. La qual cosa induce il comandante Rauffenstein a giustiziare (suo malgrado) l’amico-nemico capitano De Boëldieu. Fatto che in sé sancisce l’impossibilità di qualsiasi longanimità quando i combattenti sono disposti in contrastanti schiere proprio perché non c’è né umanità, né tolleranza tra i contendenti e, ancor più, perché non esiste una via praticabile al di fuori di un confronto cruento e che è, appunto, “vana illusione” ancorché “grande illusione” voler sottrarsi alla ineluttabilità della guerra.

In un successivo scorcio del racconto, Maréchal e Rosenthal pervengono ormai stremati dalla lunga marcia tra le montagne nei pressi del confine svizzero della sognata libertà. Rosenthal, dolorante a un piede costringe i due fuggiaschi a cercare riparo nel casolare della vedova tedesca Elsa (una dorata, dolcissima Dita Parlo) che con la sua figlioletta s’affeziona subito agli ex prigionieri e generosamente ne propizia l’ultimo balzo verso la Svizzera proprio mentre una pattuglia tedesca tenta vanamente di catturarli.

Dipanato secondo ritmi e toni sempre decontratti – e non di rado temperati da una bonaria ironia – La grande illusione risulta certo un canto sommesso e comunque resoluto contro il militarismo, la demagogia guerrafondaia e al contempo, una rivendicazione civilissima verso un più alto, nobile rapporto tra uomini, idealità anche dialetticamente lontani. Non è un caso che ricorrenti, in questo film, sono i richiami, le aspirazioni trasparenti nei dialoghi, nelle situazioni ad una consapevole tolleranza: l’ebreo Rosenthal e il francese Maréchal sono assolutamente differenti l’uno dall’altro, ma la forza della ragione e dell’umanità ha presto ragione d’ogni ostacolo. Il borghese-anarchico-progressista Jean Renoir ha saputo cavare anche da una situazione di fatto insormontabile il messaggio della sua grande, lucida illusione.

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