Francesco NICOLOSI FAZIO- Caffè clandestino (allo Stabile di Catania, “La bottega del caffè” diretto da N.Orfino)


 

La sera della prima


CAFFE’ CLANDESTINO

“La bottega del caffè” di Carlo Goldoni. Regia di Nicola Alberto Orofino.  Con: Alessandra Barbagallo, Egle Doria, Barbara Gallo, Carmen Panarello, Francesco Bernava, Silvio Laviano, Marcello Montalto, Emanuele Puglia, Francesco Vitale.

Produzione. XXI In Scena. Al Teatro Musco – Stabile di Catania

 

****

Commedia emblematica della “riforma” che Goldoni portò al teatro italiano. L’evoluzione maturata dal grande autore è qui documentata dal passaggio da una prima versione in dialetto, che prevedeva le maschere di Brighella ed Arlecchino; questi poi diventano Ridolfo e Trappola, volti umani che parlano solo italiano. All’interno della commedia si è verificato un miracolo storico. Dopo più di 260 anni il miracolo dell’innovazione si ripete, anche al “Musco”.

Ricordiamo la trama: Su un campiello affacciano tre botteghe:  Caffé, barbiere e bisca. Il caffé del titolo è gestito da Ridolfo, che vive onestamente. Tutti gli altri hanno qualche difettuccio: Pandolfo tiene la bisca e bara; Eugenio vi gioca la dote della moglie; Leandro lo raggira alle carte, con i denari altrui mantiene la ballerina Lisaura; Don Marzio calunnia e diffama un po’ tutti, donne comprese, che sono le più sagge, nell’interesse. In un turbinare di debiti, pegni e zecchini, il finale a sorpresa ricompone un provvisorio equilibrio, con la riconciliazione delle coppie legali, la prigione per il baro  e l’emarginazione di don Marzio. Nel testo, grande protagonista della vicenda è l’avidità, dove la continua ricerca di zecchini, o analoghi beni, occupa la vita di quasi tutti. In fondo la decadente Venezia del 1750 non è poi così dissimile dalle odierne nostre città dolenti. Oggi gli economisti ci spiegano che è colpa della crisi. All’epoca non avevano ancora inventato gli economisti, ma neanche i campi di sterminio.

La regia di Orofino spinge ancora  oltre l’attualità dell’opera, incrudendo i personaggi in una realtà quasi borgatara. Stravolti in special modo due personaggi: con una splendida Egle Doria (qualche settimana or sono perfetta Madonna), si mostra la ballerina Lisaura, che balla veramente, come una settecentesca mascherata cubista, in una gabbia; ma soprattutto si gode di un nuovissimo don Marzio, che accoglie gli spettatori sul marciapiede davanti al teatro, in una perfetta mise da clochard, per poi entrare in scena, suscitando sorpresa e dubbi negli astanti, grazie alla verosimiglianza resa da Silvio Laviano. Originalissima la chiave di lettura resa da Orofino, imperniata su questo personaggio: “Don Marzio è irruzione dell’irrazionale, è urgenza di giustizia, è sete di verità” (N.d.R.). Lui è lo sconfitto della vicenda, perde perché è “impossibile per lui accettare il tempo che è costretto a vivere” (N.d.R.) in una società dove conta solo il denaro, come sancito nella scena finale quando, assieme alle note di Manu Chao in “Clandestino”, scendono sul palcoscenico centinaia di biglietti in Euro, quello dal verde colore che lo affratella al Dollaro.

Ancora una volta Nicola Alberto ci sorprende, anzi ci spiazza piacevolmente, con l’intelligente irriverenza con cui  ha già affrontato, con spavaldo mestiere, anche Shakespere, ottenendo sempre una rara sintesi, di originalità e rispetto del testo, sconosciuta anche a maturi registi di grande notorietà.

La mano della regia si sente riflessa negli attori che offrono una recitazione intensa, dove il corpo “parla” tanto e sempre, non lasciando quasi mai il palcoscenico. Volutamente non cala mai il sipario lasciando tutti gli attori in scena, prima ancora del suono del campanello d’inizio. Si avverte una positiva tensione ed una complicità tra tutti gli attori, che si immedesimano perfettamente nei personaggi, che così fanno parte di un gruppo di pensiero unitario,  che ha un credo nell’unico valore riconosciuto: gli zecchini. Coerentemente “Don Marzio fuoriesce dal coro” (N.d.R.), con una ricerca di verità, da appuntare nella sua compagna-agenda, una “verità” che lo rende sconfitto e “clandestino”, ma incontaminato dall’altrui grettezza.

Intravediamo nello spettacolo anche una metafora del teatro, inteso come uno strumento che deve alimentare dubbi e demolire certezze, al costo di farci sentire, almeno per le due ore dello spettacolo, anche noi “clandestini”.

Author: admin

Share This Post On