Francesco TOZZA- Riverberi di memoria…(“Le sorelle Macaluso” di Emma Dante. Al Mercadante di Napoli)




Teatro    La sera della prima


RIVERBERI DI MEMORIA

Emma Dante:

 

 

Ed esplosione dell’inconscio nel teatro di Emma Dante-Lessico familiare in Le sorelle Macaluso della regista palermitana- Al  Teatro Mercadante di Napoli

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Chi ha avuto la ventura di seguire, dall’inizio, tutto – o quasi tutto – il percorso teatrale di Emma Dante, arricchito di recente da un’esperienza cinematografica (Via Castellana Bandiera, dall’omonimo suo romanzo) e da tre regie liriche (Carmen di Bizet alla Scala, La muette de Portici di Auber all’Opéra-Comique di Parigi e Feuersnot di R. Strauss, proprio in questi giorni al Massimo di Palermo) sarà rimasto certamente colpito dall’originalità creativa, ma ormai anche dalla coerenza (e tenuta) artistica (che non è ripetizione dell’identico!), offerta dalla grande siciliana: originalità che si tradusse, all’epoca del quasi iniziale, comunque rivelatore mPalermu (2001), in un vero e proprio choc per molti dei suoi primi spettatori.

I quali rimasero attratti, ma anche quasi irretiti, da quella lingua nota e a un tempo misteriosa, terribile nei suoi impasti vocali ma sempre musicalissima, con i relativi comportamenti scenici dagli evidenti ritmi espressionistici, spesso quasi violenti, mai “reali” comunque, e tuttavia “veri”, di quella verità che solo un inconscio liberato, nelle sue più nascoste, intime profondità, riesce a dare.  Piuttosto si potrebbe dire che, col tempo, quell’espressionismo di partenza si sia, per certi versi, come ammorbidito, cedendo ai velami della memoria, alla tenerezza per i ricordi lontani, che è fatta anche di silenzi, spesso di pause nella tessitura mai lineare del racconto; e si traduce, anche per questo, in un movimento meno frenetico degli attori, in quel buio – a volte quasi assoluto – di un palcoscenico vuoto, assai più loquace, oramai, delle accecanti luci che in precedenti lavori illuminavano, ad esempio, bianchi vestiti da sposa, per crudeli matrimoni che a stento nascondevano storie di stupri e incestuose violenze.

Evidentemente il lessico familiare, cui Emma Dante ha prestato sempre una particolare attenzione (come testimonia ancora quest’ultimo lavoro, Le sorelle Macaluso, in prima a Napoli nei giorni scorsi, subito dopo in tournée in alcune città italiane, ma anche all’estero, trattandosi di una coproduzione internazionale), ha assunto toni più dimessi: qui la famiglia non è più un semplice legame di sangue, con le sue leggi, le usanze spietate che la condizionano, e spesso la soffocano o la distruggono; continua, forse, ad essere l’asse portante di una società tutto sommato arcaica, ma in essa tuttavia si riscoprono – coesisteni – violenza e tenerezza, crudele dovere d’obbedienza ma anche solidarietà reciproca (il conflitto fra parenti sembra ormai ridursi a schermaglie con scudi e spade di latta, come nell’opera dei pupi, e non a caso quei relitti di un mondo passato fanno bella mostra di sé in proscenio, sin dall’inizio della pièce).

Che la strada dell’eccesso conduca al palazzo della saggezza, come voleva William Blake, il poeta e pittore visionario inglese? Nel caso di Emma non è proprio così: tutto è più ambiguo e sfumato. C’è l’approdo ad una toccante riflessione sulla morte e alla conseguente elaborazione scenica del lutto, che si appoggia ad una memoria più melanconicamente rievocativa che fortemente animata dai vecchi furori liturgici; ma restano le ferite aperte e mai del tutto sanate, i rancori repressi, quindi la ripetizione angosciante dei gesti che rifiuta l’oblio delle responsabilità a suo tempo denunciate e mai del tutto perdonate (qui, ad esempio, la morte per annegamento della più piccola delle sorelle, con palleggiamento delle colpe da parte delle altre, di una in particolare, che accusa il padre, e si ritiene da lui per questo punita con la chiusura in collegio, dove è rimasta a crescere, sola come una cana).

A volte prevalgono, comunque, i momenti lieti del ricordo, come quando le sorelle, dismesso il vestito del lutto, rievocano quel lontano episodio dell’infanzia – la loro prima gita al mare – che è forse la premessa all’evento luttuoso appena citato: e allora ridono, scherzano con quei loro gridolini e quelle mani per una volta libere di toccarsi ed esaltare gli angoli più riposti dei loro corpi, a lungo repressi. Lo stesso può dirsi delle scene in cui appaiono le uniche due figure maschili di questo universo familiare: quella del nipote calciatore, col mito di Maradona, fulminato da un infarto sul campo da gioco, e quella del fantasma redivivo del padre delle Macaluso, ritratto – non senza sottile ironia – mentre con le figlie, divenute grandi, ostenta l’ingenuo desiderio d’apparire ancora giovane, col pettinino in tasca, perché sempre pronto a lisciarsi, oppure quando, in una sottoveste che non offusca la sua virilità, intraprende un tenero ballo col fantasma della madre.

Quasi inutile a questo punto ripetere e sottolineare che vicende e personaggi, cui si è appenna fatto cenno, non hanno in questo – ancor più che negli altri lavori – della Dante, lineare svolgimento, procedendo il tutto per frammenti di discorso, lacerti di vissuto, categorie spazio temporali mai determinate una volta per tutte; domina, infatti, lo spazio disordinato della memoria, il tempo tutt’altro che organico e conseguenziale della psiche; peraltro, in una scrittura scenica dove i retaggi di una non dimenticata sicilianità si sposano, ormai, a sempre più chiare forme di suggestione da certa cultura teatrale mitteleuropea. Si è fatto, in proposito, il nome di Kantor, ma forse sarebbe più pertinente il riferimento al teatrodanza e a tracce di quella straordinaria eredità avutasi nel dopo Pina Bausch; e forse la stessa danza che apre lo spettacolo, silenzioso a solo di una coreografia che contempla contemporaneamente lo snodarsi di un inquietante corteo funebre, se non è più – e non può essere – il tragico valzer che la straussiana Elektra balla sulle fumanti rovine di quella novella Micene che fu la preconizzata Europa in fiamme, si presta a divenire a sua volta il doloroso addio ad una cultura di cui il teatro di Emma Dante – e questo suo ultimo lavoro in particolare – continua a presentare le ultime, non meno tragiche rovine (e la scelta recente di firmare la regia, per il Massimo palermitano, di una delle prime opere di Richard Strauss ci offre quasi la conferma dell’ardito parallelismo).

Morte e trasfigurazione, del resto, convivono anche sulla scena di queste Sorelle Macaluso, e danzare era il sogno anche di una di loro, fin da quando, bambina, spiava dalla finestra gli esercizi della scuola di ballo sotto casa. Nel gioco costante fra le persone vere e le identità ritrovate (i loro fantasmi), nel quale consiste l’unico, tenue filo conduttore della rappresentazione, la più grande delle sorelle realizza il suo sogno: può finalmente spogliarsi del lugubre abbigliamento che l’ha accompagnata per tutta la vita e, ormai nuda, abbandonarsi al vortice del ballo, indossando il bianco tutù che le porgono. Poi di nuovo il buio, come all’inizio, prima che una nuova rappresentazione inizi, come nella perenne altalena della vita e della morte.

Bravi tutti gli interpreti, meritevoli di essere citati tutti (non lo facciamo mai, ma questa volta è d’obbligo): Serena Barone, Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna (il padre), Italia Carroccio, Davide Celonia (Davidù, l’appassionato di calcio), Marcella Colaianni, Alessandra Fazzino (Maria, la danseuse), Daniela Macaluso, Leonarda Saffi, Stephanie Taillandier (la madre).

 

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