Sauro BORELLI- La Brianza del nostro scontento (“Il capitale umano”, un film di Paolo Virzì)

 

 

 

Il mestiere del critico


LA BRIANZA DEL NOSTRO SCONTENTO

 

Il nuovo film di Paolo Virzì “Il capitale umano”

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“La Brianza del nostro scontento”. Sì, proprio questa parafrasi del Riccardo III scespiriano si attaglia perfettamente per definire – anche a scorno delle pretestuose rimostranze leghiste – la traccia narrativa del nuovo film di Paolo Virzì Il capitale umano tratto, con qualche licenza, dal bel libro di Stephan Amidou dall’omonimo titolo e ambientato originariamente in un’arida contrada del Connecticut. Virzì e i suoi cosceneggiatori Francesco Bruni e Francesco Piccolo hanno infatti proporzionato il loro lavoro secondo un intento volto a rappresentare una vicenda, una realtà che, attraverso personaggi e fatti di desolata fisionomia, prospettano uno scorcio significativo dell’attuale situazione esistenziale, sociale, antropologica che ben esemplifica, appunto, il malessere, il disagio montante caratteristico di un definito ambito della contemporaneità attuale del nostro Paese.

Certo, rispetto alle prove anche pregevoli realizzate da Paolo Virzì sul filo di un approccio satirico più disinibito, Il capitale umano – va detto – si discosta radicalmente, poiché qui l’estro un po’ ruvido, un po’ caustico tipico dello stesso autore si precisa, prende corpo e senso puntuali nel solco di una storia più serrata, più severa destinata a disegnare un apologo manifestamente polemico (e in qualche misura persino politico) sul biasimevole stato delle cose che inquina idealità e slanci innovatori dell’Italia d’oggi.

Esageriamo? Non diremmo proprio. Virzì & compagni, animati, si direbbe, da sacro fuoco moralizzatore, imbastiscono un racconto resoluto e poco indulgente di una enclave piccola-media-alto borghese dislocata in luoghi, case, consuetudini di privilegiato tenore di vita ove si celebrano i riti e i miti convenzionali di un’esistenza giocata e giostrata, di volta in volta, sui fasti e nefasti del denaro, dell’ostentazione impudente del lusso e soprattutto sull’oltraggioso prepotere di faccendieri e mistificatori in un ménage insieme irresponsabile e spietato.

Più esattamente, un patetico arrampicatore sociale, Dino Ossola (Fabrizio Bentivoglio) fa e briga spudoratamente, goffamente, per agganciare e debitamente profittare di una supposta amicizia col finanziere d’assalto Giovanni Bernaschi. Suo proposito dominante è quello di infiltrarsi in una colossale speculazione, dalla quale trarre sproporzionato guadagno e, al contempo, d’approdare ad una promozione sociale vistosa quanto volgare.

In una Brianza “reinventata” in una posticcia Ornate, perennemente sprofondata in un ostinato clima invernale, e tra pretenziosi quartierini in piccolo-borghesi e sontuose dimore padronali, si dipana, dunque, la strategia rozza e maldestra dell’inetto immobiliarista Ossola, coinvolgendo nella progressione narrativa l’indocile figlia adolescente Serena, la sempre soccorrevole moglie (Valeria Golino), la sola persona equilibrata del gruppo, sbalestrate nell’impari confronto con la famiglia facoltosa e refrattaria del cinico Bernaschi, della moglie Carla (Valeria Bruni tedeschi) e del loro disorientato figlio, perso in smanie e vizi desolanti. Il fulcro centrale di una tale rappresentazione si condensa in particolare, in alcuni incidenti che, a dispetto dei piani affaristici tanto di Ossola quanto di Bernaschi, si verificano al di là d’ogni ambita speculazione: da una parte, il cruento fatto in cui vengono coinvolti uno sfortunato ciclista e i giovani dell’una e dell’altra famiglia; e poi il rovinoso esito dei progetti lucrosi preventivati a suo tempo dal finanziere e dall’immobiliarista.

Tutto ciò mentre l’ingenua signora Carla, velleitariamente illusa di rilanciare il teatro locale col frustrato professorino Russomanno (Luigi Lo Cascio), vede presto naufragare il suo sogno; e la pur onesta compagna di Ossola rimedia come può (sebbene incinta) ai guai del marito; e i giovani, già innamorati e ora mortificati da eventi giudiziari risolutori, marciano inesorabili verso una catastrofe squallida totalmente deficitaria. Indicativo è l’epilogo che suona come un insultante sberleffo, ove lo scafato Bernaschi e tutti i facoltosi borghesi pari suoi – ormai rimessi in sella da sordidi affari e criminose consorterie – festeggiano, impavidi un’altra delle loro stagioni di scialo e di speculazioni senza alcun ritegno.

Tirato via con risoluto piglio evocativo e sostanziato da toni e ritmi calibrati a dovere, Il capitale umano costituisce, specie a confronto con le precedenti prove di Virzì, un film dal solido impianto drammaturgico e, ancor più, una parabola altamente eloquente su certa diffusa degenerazione del costume e dei parametri civili della nostra società. Significativa la sconfortata frase della pur svagata signora Carla rivolta allo spregiudicato marito: “Avete scommesso sulla rovina di questo Paese. Ebbene avete vinto”.

Oltretutto, si tratta di una realizzazione spettacolare che trova i suoi indubbi punti di forza nella corale maestria di un gruppo di attori decisamente al meglio del loro standard: da Fabrizio Gifuni a Fabrizio Bentivoglio, da Valeria Bruni Tedeschi a Valeria Golino, da Luigi Lo Cascio a Bebo Storti è tutta una consonante dedizione ad un cinema davvero magistrale.

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